E'
con questa visione che negli anni 60 e 70, complice il Governo Italiano,
iniziano ad essere presentati e, quel che è peggio, approvati, dei scellerati piani di
costruzione di macroedilizia da destinare alle ATER nazionali.
Sorgono così i
cosiddetti "ecomostri" come le Vele di Napoli e, a Trieste, il
complesso di Rozzol Melara. Il paesaggio ne viene violentato nel senso
letterale del termine. Il biglietto da visita di Trieste non è più il mare che
si apre alla vista dei forestieri che percorrono l'autostrada A4 fino alla
città di confine, ma il cosiddetto "Quadrilatero" di Melara.
Percorrendone i lunghi e labirintici "corridoi sociali", lo sguardo
viene catturato dalle geometrie architettoniche e dai murales che coprono (o
vogliono coprire) il freddo e grigio calcestruzzo a vista, come a voler
concedere un'anima a ciò che anima non può e non vuole avere.
Ciò che colpisce
è la totale assenza di persone. Si sentono delle voci in lontananza di anziani
che discutono animatamente in non si sa quale corridoio, ma la vista ne è
confusa, quasi ad essere soggetta ad una sinestesia acustica: qui non c'è
nessuno eppure la presenza umana è documentata.
Quelle 468 caselle geometriche
che chiamano "appartamenti" sono tutte abitate e se ne percepiscono i
segni (spazzatura, un materasso abbandonato in un corridoio, insegne di negozi
puliti ma sbarrati da inferriate).
Nei meandri scuri o semi illuminati dai neon
rotti, si passano porte e porte... troppe porte. Troppi loculi isolati che
potrebbero diventare facilmente rifugi per tossici e delinquenti in fuga dalla
vicina Polizia di Rozzol Melara.
Ma qui (per fortuna), il senso di aggregazione della comunità ha avuto la meglio, trasformando un Nonluogo fatiscente e per niente
"radieuse" in una comunità viva che lotta quotidianamente per cercare
di fornire un minimo di decoro e di vivibilità alle proprie esistenze inserite
in un complesso che sembra creato apposta per opprimere anche l'ultimo barlume
di felicità e spensieratezza.
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